venerdì 29 settembre 2017

"Puliamo il buio" 2017 a Sant'Angelo Le Fratte (PZ)

Raccolta di rifiuti in una grotta
A furia di inciampare in cumuli di rifiuti abbandonati sui marciapiedi e di rammaricarti per qualche bel posticino rovinato dalla solita collezione di cartacce e bottiglie di plastica, va a finire che ti vien voglia di fare qualcosa che ti faccia sentire meglio e dia almeno testimonianza della possibilità di cambiare le cose, se fossimo in tanti a volerlo. Magari prendendoti cura di qualche caso limite, di qualche posto difficilmente accessibile e perfino invisibile ai più, perché se è importante quello, e lo è per davvero, a maggior ragione bisognerebbe sforzarsi di tenere a posto tutto il resto. Da qualche tempo il modo migliore per cimentarsi in una simile impresa, a patto che si posseggano le competenze tecniche necessarie, è prendere parte a“Puliamo il buio”, la versione speleologica della più nota “Puliamo il mondo”, promossa da Legambiente. Non è la prima volta. Quest'anno ho scelto di farlo in Basilicata, al seguito del Gruppo Speleo Melandro di Satriano di Lucania. Siamo andati a Sant'Angelo Le Fratte, in provincia di Potenza, il cui nucleo è un bel borgo edificato su frammenti di roccia colossali (le “fratte”) distaccatisi dal Monte Carpineto, una montagna spaccata che domina la valle del Melandro e offre le sue falesie agli appassionati dell'arrampicata, sebbene le sue pendici attirino anche la curiosità degli speleologi. La dislocazione della roccia ha infatti determinato anche la formazione di caverne, in massima parte antropizzate, in alcune delle quali sono state individuate delle vere e proprie discariche abusive sotterranee, che il sodalizio lucano ha deciso di eliminare. Due delle tre cavità interessate dall'intervento si trovano al di sotto dell'abitato, mentre la terza, ubicata nelle sue immediate vicinanze, è una delle tante grotte attraversate da correnti d'aria fredda che si aprono in un vallone percorso da una gradinata tortuosa adorna di sculture, probabilmente l'unica a non essere utilizzata come cantina. Il luogo, di per sé già molto suggestivo, ogni anno, dal 12 al 15 agosto, si anima per la festa de Le Cantine Aperte, un'occasione per visitarle una per una assaggiando i prodotti tipici e l'immancabile vino, che insieme ai formaggi viene conservato proprio in quelle fredde spelonche.
Speleologi con parte del materiale raccolto
Al termine delle operazioni, i rifiuti recuperati, di ogni genere, riempivano interamente il vano di carico di un camioncino messo a disposizione dal Comune. Pur ammettendo di voler privilegiare, in un'iniziativa del genere, l'aspetto simbolico e dimostrativo, la salvaguardia di queste cavità avrà una ricaduta positiva sotto vari aspetti. Si è praticamente azzerato il rischio di contaminazione di falde acquifere o di altre cavità adibite alla conservazione di prodotti alimentari; la grotta più profonda, ricca di affascinanti concrezioni nella sua porzione finale e quindi meritevole di essere visitata dagli speleologi, i soli in grado di muoversi in ambienti con queste caratteristiche, ha riacquistato in tutta la sua estensione il suo aspetto naturale ovvero privo di materiali estranei, tenendo conto che l'ingresso si apre al di sotto di edifici e inevitabilmente il suo tratto iniziale è parzialmente occupato dalle fondazioni; infine la pulizia della cavità più piccola, quasi soltanto una fenditura serpeggiante, che si apre in una parete calcarea sormontata da un'abitazione, eviterà sia l'eventuale emissione di cattivi odori sia il rischio che il continuo accumulo di materiali al suo interno possa determinarne la caduta, con evidente pericolo per i passanti, o possa compromettere il decoro urbano, che d'altronde, a giudicare dall'aspetto generale dei luoghi, sembrerebbe essere tenuto in gran conto da queste parti. Naturalmente sarà necessario assicurare la durata degli effetti benefici di questo lavoro attraverso una vigilanza continua, che certamente potrà essere assicurata dalla persistenza della sinergia tra amministrazione comunale e speleologi.


giovedì 17 marzo 2016

Alfonso Gatto torna al Catalogo

di Aristide Fiore
[Pubblicato su Le Cronache, 08-03-2016] «Mi piace alla fine, dirmi e dirvi che vivo ancora, che ogni segno, ogni parola detta, scritta o dipinta, affidata all'amore altrui, mi dà vita». Difficile trovare una sintesi migliore delle stesse parole del poeta, nel dar conto dell'omaggio che gli è stato reso attraverso la mostra fotografica Alfonso Gatto e il Catalogo 1968-1976, allestita con la collaborazione della Fondazione Gatto dal 6 al 13 marzo presso la galleria Il Catalogo di Lelio Schiavone e Antonio Adiletta, nel quarantennale della morte: quarantacinque foto di Michele Adinolfi, Benito Siano e Antonio Tateo, scattate a Salerno tra il 1963 e l'anno della scomparsa, il 1976. L'attenta selezione curata da Adiletta è presentata da un testo di Paola Capone, docente di Storia dell'arte dell'ateneo salernitano. Alla carrellata di esponenti del mondo dell'arte e della cultura, ma anche della politica e dello sport, come Josè Altafini, fanno da cornice ideale un bel ritratto del poeta risalente al 1937 e le immagini dell'addio: le partecipatissime esequie e la tomba del poeta nel cimitero di Salerno, sormontata da un macigno, incombente in primo piano, che, con la sua mole, sembra evocare la grandezza del personaggio e al tempo stesso il peso di una perdita irrimediabile, che solo la memoria, tenuta viva in città proprio tra le pareti bianche di quella sala, oltre che attraverso le iniziative della fondazione a lui intitolata, può alleviare.
Due i punti salienti della storia rievocata dalle immagini esposte: il primo è quello che potremmo definire il momento iniziale della "seconda vita" di Gatto a Salerno, quando cioè, in seguito a un appello a mezzo stampa di Bruno Fontana, Antonio Castaldi e dello stesso Schiavone, fu insignito della medaglia d'oro dal sindaco Alfonso Menna, ottenendo così il giusto riconoscimento dei suoi ragguardevoli meriti artistici; il secondo, in quanto lo vide protagonista nella doppia veste di poeta e pittore, rappresenta il momento forse più importante di quella breve ma densa vicenda, ovvero la personale di Gatto tenutasi nell'aprile del 1970 in occasione della presentazione del volume Rime di viaggio per la terra dipinta (Arnoldo Mondadori, 1969), corredato di cento tempere: un'opera che riuniva le due principali forme di espressione di un artista e letterato poliedrico, poeta in tutto, oltre che nella poesia, come ha sottolineato lo scrittore e giornalista Francesco De Core nel suo intervento all'inaugurazione della mostra.
Negli anni che seguirono quel simbolico ricongiungimento tra il "poeta con la valigia" e la sua città, già legata per sempre a lui per aver ispirato molti dei suoi versi fin dagli esordi, oltre che attraverso i ricordi e gli affetti familiari, si determinarono le premesse del suo contributo concreto e continuo alla vita culturale salernitana, tramite il sodalizio umano e culturale con Lelio Schiavone. La consapevolezza della validità del suo proposito di aprire una galleria destinata a divenire un luogo d'elezione per generazioni di studiosi e estimatori d'arte, spinse Gatto, dopo aver tenuto a battesimo, nel 1968, la nuova iniziativa culturale e imprenditoriale (a lui si deve, tra l'altro, la scelta del nome), a rendere meglio partecipe il pubblico salernitano di quanto di meglio si andava allora proponendo in Italia e non solo, attraverso i testi critici che accompagnavano le mostre, oltre che assicurando la sua assidua presenza ai vernissages e nella vita di quel cenacolo di intellettuali noti come "Gli Amici del Catalogo". Non a caso il poeta volle paragonarli a un manipolo di cavalieri, votati all'amore e alla custodia di opere d'arte «belle come le donne».

venerdì 5 settembre 2014

La Grotta dello Scalandrone a Giffoni Valle Piana (SA)

Risalita della prima cascata.
Risalita della prima cascata.
Foto di Aristide Fiore.
Lo stretto ingresso della grotta, situato nel territorio di Giffoni Valle Piana (SA), a circa 750 m di quota nell’alta valle del Fiume Picentino, ai piedi del versante occidentale del Monte Accellica, immette in un ampio salone, lungo circa sessanta metri, che costituisce l'ambiente più vasto dell'intera cavità. A causa degli strani effetti sonori prodotti da una cascata e dal tratto di torrente che percorre il suo lato sinistro e sbocca poco più in basso dell'ingresso, è stato chiamato "Sala delle bambine che giocano". Percorrendo, sul lato destro, la sommità di un ammasso roccioso ricoperto di concrezioni, si raggiunge un lago poco profondo, alimentato dalla cascata. Scendendo tra le rocce, si arriva a una piccola spiaggia. Sul lato destro del salone iniziale, un passaggio verso l'alto immette nella Sala della Pietà, un ambiente più piccolo, ricco di concrezioni. Accanto alla sommità della cascata, si trova invece la vera prosecuzione della grotta, che assume la conformazione di una galleria dai contorni resi incerti dalle abbondanti concrezioni. Più in basso, in un condotto non percorribile, che comunica con quello principale solo in alcuni punti, scorre il torrente sotterraneo che alimenta la prima cascata. Alle estremità di due corte diramazioni si trovano la Sala dei Pipistrelli, che per il particolare pregio delle concrezioni si può considerare l'ambiente più bello, e la suggestiva Sala della Colonna. Più avanti, dopo una sala inclinata al cui fondo scorre il torrente sotterraneo, la grotta si sdoppia nei Rami Luisa, che convergono in una strettoia che immette nella Sala del rubinetto aperto. Continuando verso l'alto, nella Sala Adriana si incontra un'altra cascata, alla cui sommità inizia una tortuosa galleria percorsa dall'acqua, lunga circa 80 m, che termina in un ampio salone, nel quale precipita la terza e ultima cascata. Lo sviluppo complessivo della grotta è di 450 m, con un dislivello di 57 m.
L'esplorazione oltre la prima cascata e il rilievo topografico dell'intera cavità sono frutto della collaborazione tra il Gruppo Speleologico CAI Napoli e il Gruppo Speleologico CAI Salerno, tra il 1989 e il 1991.


BIBLIOGRAFIA
Giovanni Galdieri, "Il Gruppo Speleo C.A.I. Salerno al Congresso Nazionale di Speleologia". Il Varco del Paradiso, anno IV - n° 3, ottobre 1990, p. 2.
Gruppo Speleologico C.A.I. Salerno, "Attività del Gruppo". Il Varco del Paradiso, anno V - n° 3, ottobre-dicembre 1991, p. 10.
Luigi Ferranti, "La Grotta dello Scalandrone nel quadro dell'assetto strutturale e dell'evoluzione geomorfologica del massiccio dell'Accellica (Monti Picentini - Appennino Meridionale). In Atti del XVI Congresso Nazionale di Speleologia (ottobre-novembre 1990) - Le Grotte d'Italia vol. XVI, 1992-1993, pp. 41-58.
V. Piscopo, S. Genco, E. Sciumanò, S. Aquino, "Sulla presenza di falde sospese nel rilievo carbonatico di Monte Accellica (Campania)". In Atti del VI Congresso Nazionale dei giovani ricercatori di geologia applicata, 1996, pp. 109-110.
Antonio Santo, Italo Giulivo, "I Monti Picentini". In Natalino Russo, Sossio Del Prete, Italo Giulivo, Antonio Santo, Grotte e Speleologia della Campania, Elio Sellino Editore, Avellino 2005, pp. 391-392.

martedì 13 maggio 2014

Carlo Quaglia doc al Catalogo

Di Aristide Fiore
"Intonaco romano", 1964: olio su faesite.
"Intonaco romano", 1964:
olio su faesite.
[Pubblicato su Le Cronache del salernitano, 1 maggio 2014, p. 11.]
La luce dei cieli dorati e dei tramonti infuocati di Roma, la quiete di paesaggi marini ancora incontaminati sono temi cari al pittore-violinista ternano Carlo Quaglia (1903-1970). Vengono ora riproposti a Salerno, fino a sabato 10 maggio 2014, presso la galleria Il Catalogo di Lelio Schiavone e Antonio Adiletta, in un'interessante retrospettiva, curata in collaborazione con l'Archivio Carlo Quaglia, che comprende circa trenta opere tra olii e disegni.

Nella ricca gamma cromatica, sempre ben accordata, e nella magia dell'atmosfera, calma e misteriosa, resa mediante ampie e morbide pennellate, si riconosce la lezione di quella Scuola romana fondata da Mario Mafai, Antonietta Raphaël, "Scipione" (Gino Bonichi) Fausto Pirandello e altri, la quale contrappose il carattere espressionista che accomunava i suoi esponenti al neoclassicismo in voga nell'Italia del primo dopoguerra e, grazie all'apporto di nuove leve, estese la sua attività fino al secondo, epoca in cui prese le mosse la tardiva ma significativa carriera di Quaglia, dopo i primi esperimenti condotti durante la prigionia in India, alle pendici dell‘Himalaya. Nel farsi artista, dunque, 
"Riviera ligure", 1950: olio su carta.
"Riviera ligure", 1950: olio su carta.
da estimatore d'arte contemporanea quale era, Quaglia imparò a dosare gli intensi rossi scipioneschi, l'amore per le borgate e le periferie di Mafai, le suggestioni chagalliane di Raphaël e così via nella costruzione del proprio linguaggio. Ciò che ne risulta non è la descrizione o la narrazione di quanto l'artista vide, ma l'emozione che quella tal cosa o il ricordo di essa suscitò in lui, trasposta nel colore: un colore spesso disposto per campiture, ciascuna delle quali è naturalmente individuata da una dominante cromatica, ma vibra per la fitta gamma di sfumature, restituendo allo sguardo la vividezza del contesto reale. Questi scenari urbani e rivieraschi, volutamente sgombri di presenze umane, che in genere vengono tutt'al più evocate nella rappresentazione di sculture o altri ornamenti di auguste dimore, sembrano pensati per essere abitati dall'anima: quella dell'artista, in primo luogo, il quale forse trovò più volte un sicuro rifugio, soprattutto nei momenti più drammatici della sua esistenza, prima nelle opere altrui, poi nelle proprie.


mercoledì 16 aprile 2014

Tra la storia e la memoria


Antonella Pagnotta, "La Radura".
Antonella Pagnotta, "La Radura".
(Foto: A. Fiore)


Pasquale Napolitano, "Appunti per uno spazio in cinque tempi".
Pasquale Napolitano,
"Appunti per uno spazio in cinque tempi".
(Foto: A. Fiore)
Lucio Afeltra, "Da sere... orto".
Lucio Afeltra, "Da sere... orto".
(Foto: A. Fiore)
Antonella Gorga, "No" - Senza titolo.
Antonella Gorga, "No" - Senza titolo.
(Foto: A. Fiore)
Dario Di Sessa, "Tramonto" - "Ombrellone" - "Licosa".
Dario Di Sessa,
"Tramonto" - "Ombrellone" - "Licosa".
(Foto: A. Fiore)
Vittorio Pannone, "Tabularasa".
Vittorio Pannone, "Tabularasa".
(Foto: A. Fiore)
Angelo Marra, "Cara mamma".
Angelo Marra,
"Cara mamma".
(Foto: A. Fiore)












Di Aristide Fiore
[Pubblicato su Le Cronache del salernitano, 14 aprile 2014, p. 12.]
A un secolo dallo scoppio della Grande Guerra, otto artisti sono stati invitati dal critico d'arte Marcello Francolini a indagare l'inconscio collettivo per indurre il pubblico a riflettere sui possibili ricorsi di quel fatale 1914 che sconvolse l'Europa e non solo. La collettiva allestita nella Pinacoteca Provinciale di Salerno in collaborazione con la Fornace Falcone invita a reinterpretare il modo di concepire l'esserci, l'essere nel mondo. Per Francolini e gli otto artisti in mostra «non è con le labili barriere d’una presunta scientificità o d’una presunta logicità degli eventi o dei giudizi, che l’uomo potrà difendersi dall’assalto dell’irrazionale, dell’onirico, dell’inconscio; anzi è accettando la condizione di instabilità e indeterminatezza, che potrà farsi strada una concezione del mondo che attinga maggiore forza e maggiore chiarezza proprio dalla constatazione del potere di “un pensiero per immagini”». Sono state dunque formulate otto proposte di “mediazione possibile” tra storia e vita, memoria e percezione, che potrebbero essere riferite a due filoni principali.
Il rischio di perdere il senso del mondo o la percezione di sé – e l'invito implicito a evitare tale perdita – è il tema che accomuna le opere proposte da Antonella Pagnotta, Pasquale Napolitano e Lucio Afeltra. “La radura” di Pagnotta è in realtà un non-luogo, individuato mediante la dimensione contraddittoria di una “disfunzione prospettica”, che induce l'osservatore a concentrarsi sull'unica certezza: il corpo, rappresentato dall'enigmatica figura, incastonata tra quinte illusorie al centro del dipinto. Quanto sia facile intraprendere il percorso contrario, lasciarsi illudere dal fascino della tecnologia a discapito della percezione della dimensione umana, lo dimostra la fantasmagoria di luci della videoinstallazione di Napolitano (“Appunti per uno spazio in cinque tempi”), mentre il grande pannello polimaterico di Afeltra (“Da sere... orto”) rappresenta un disperato tentativo di aggrapparsi al reale, a una ordinarietà agognata ma sfuggente, la cui persistenza, nonostante tutto, si manifesta con decisione nelle immagini di Antonella Gorga e in quelle, immediate ma non banali, di Dario di Sessa.
Altro tema fondamentale è la memoria. Se è vero che la storia la (ri-)scrivono i vincitori, anche il vissuto di coloro che sono stati coinvolti a vario titolo dagli eventi fonda la sua integrità su equilibri precari. È questo il senso di “Tabularasa” di Vittorio Pannone. Il carattere monumentale del segno viene contraddetto dallo stesso materiale con il quale è realizzato: nel supporto di cartone si intravede la vertigine dell'effimero, dell'appoggio malfermo. Finché il ricordo dura, occorre adoperarsi tuttavia affinché superi le barriere innalzate per superare il lutto e diventi utilizzabile, a beneficio dei sopravvissuti e dei posteri; magari facendo ricorso a qualche espediente, che ne attenui il potenziale ritraumatizzante. Le installazioni di Angelo Marra, quasi dei totem atti a rappresentare due aspetti della tragicità della guerra (“Cara mamma” e “La miseria più nera”), sembrano guardare al dolore con distacco; a esse fanno da controcanto i tre dipinti su cartone dello stesso autore (“Poi la guerra è finita”, “Un angelo al buio”, “Senza titolo”), mediante i quali egli tenta invece di affrontare l'indicibile, lasciando fluire sensazioni e ricordi attraverso segni apparentemente poco organizzati, quasi infantili: è una sfida alle false certezze, che preludono alle peggiori avventure. Nelle immagini fotografiche di Pio Peruzzini, invece, la memoria storica di un tratto paesaggistico simbolico – le doline del Carso – veicolata attraverso la morfologia organica – gli occhi di pesce – si trasforma in monito.
La mostra sarà visitabile fino al 30 aprile 2014 dal martedì alla domenica, dalle 9:00 alle 19:45.

Pio Peruzzini, "Engraulis Encrasicolus".
Pio Peruzzini, "Engraulis Encrasicolus".
(Foto: A. Fiore)

venerdì 11 aprile 2014

L'arte cucita di Virginia Franceschi

Di Aristide Fiore
Virginia Franceschi tra le sue opere.
Virginia Franceschi tra le sue opere.
[Pubblicato su Le Cronache del salernitano, 6 aprile 2014, p. 9.]
La definizione di un nuovo rapporto tra arte, spazio e ambiente è lo scopo della ricerca di Virginia Franceschi, i cui traguardi più recenti sono esemplificati nella mostra Punti di Sospensione, visitabile a partire da venerdì 4 aprile 2014 a Salerno, presso Linee Contemporanee, in collaborazione con la Fornace Falcone.
Il tratto comune dell'intera produzione artistica di Franceschi è l'unione: di materiali, culture, poetiche e, in definitiva, anche di persone. Grande esperta di cucito, concepisce le sue composizioni mediante l'accostamento di tasselli colorati in tessuto di vario aspetto e consistenza (cotone, lino, seta ecc.), spesso sfilati o arricchiti da ricami e rifiniti con l’aggiunta di elementi diversi: cordoncini, fili, nastri, frammenti di ceramica, bottoni, paillettes; materiali raccolti e riutilizzati efficacemente. Così come i tessuti, scelti accuratamente dall'artista tra le antiche stoffe di famiglia e nei mercatini dell’usato o durante i suoi viaggi in Francia, in Turchia, in Marocco, in Uzbekistan e, ultimamente, in Etiopia, dove, ospite di una missione cattolica, ha insegnato alle donne i rituali poetici del cucito, attività svolta da sempre esclusivamente dagli uomini e ritenuta una semplice abitudine, connotata da una certa ripetitività. Il risultato di tutte queste esperienze combina la poetica dadaista dei “ready-made”, ovvero la riconversione di oggetti di uso quotidiano in opera d’arte, e degli “objets trouves” con la scultura cinetica inaugurata dai “mobiles”, le sculture mobili di Alexander Calder. Le sospensioni sensibili di Virginia Franceschi, realizzate con rami contorti recuperati sulle spiagge del Cilento, insieme a bottiglie di plastica, giocattoli rotti, reti metalliche e altri materiali d'ogni genere trasportati dal mare, coniugano la critica del ciclo economico basato sul consumismo all'invito all'adozione di stili di vita sostenibili, espresso dalla rivalutazione di oggetti scartati e rafforzato dal riferimento materiale e estetico a culture e civiltà “altre”, offerte implicitamente come esempio, che sono rappresentate dai tessuti di provenienza esotica. Si inserisce pienamente in questo filone la nuova serie di cuscini, realizzati con fantasiose stoffe di provenienza orientale e rifiniti con decorazioni e interventi artistici, che in questo allestimento, curato da Maria Giovanna Sessa, sono sospesi in colorati grappoli oscillanti sui sofisticati divani dello show room. Alcuni di essi, impreziositi da accurati ricami, sono opera di Carla Oliva, artista dell’ago e membro del laboratorio di cucito creativo “Agoscrittura”, presso il quale Virginia Franceschi riunisce donne accomunate dalla passione per questa disciplina, la cui pratica riesce a sortire anche effetti benefici e perfino terapeutici.

La mostra sarà aperta al pubblico fino al 26 aprile 2014, tutti i giorni dalle 9.00 alle 20.00.

giovedì 10 aprile 2014

Apologia della superficie

Di Aristide Fiore
Alcune opere esposte.
[Pubblicato su Le cronache del salernitano, 3 aprile 2014, p. 17.]
«Essere apparentemente lieti mentre l’animo brucia ferocemente e affidare a forme profughe il verbo futuro di ogni racconto possibile». Così FrancescoTadini, curatore, insieme a Melina Scalise e Antonello Tolve, di “Apologia della superficie”, la personale di Ernesto Terlizzi allestita a Milano, presso lo Spazio Tadini, definisce il carattere di questa mostra. Aperta fino al 18 aprile 2014, è composta da trenta opere, tutte realizzate su carta thailandese kozo martellata e risalenti al 2013, tranne "In volo", che è del 2014: in quest'ultimo lavoro, composto da sei fogli, come afferma lo stesso autore, «aleggia il vento della Speranza per centinaia di profughi tesi a costruire un Sogno. Un Sogno che spesso s'infrange, sommerso nel profondo silenzio del mare». Va notato, in proposito, che il riferimento all'elemento liquido, se non proprio al mare, è frequente in questa selezione. Terlizzi ha sempre dimostrato una grande sensibilità verso le tematiche relative alle emergenze umanitarie, che si riflette spesso sia nelle sue opere sia nella sua attività espositiva: già invitato presso la galleria milanese nel 2011, ha aderito, due anni dopo, al progetto “Save My Dream”, una collettiva che Spazio Tadini ha dedicato agli immigrati periti nel tentativo di raggiungere le coste italiane. Per espressa volontà di Francesco Tadini, figlio del maestro Emilio, scomparso da dodici anni, nel luogo che fu il suo studio, ora trasformato in centro d'arte e cultura, si rinnova idealmente un legame improntato sulla stima reciproca.
Alcune opere esposte.
Secondo Melina Scalise, l'arte di Terlizzi oltrepassa l'ambito dell'astrattismo, nel quale, a prima vista, si sarebbe tentati di collocarla. Le immagini rappresentate su queste carte superano la bidimensionalità, proponendosi come veri e propri oggetti, che si offrono sia alla vista, mediante l'accurata scansione di piani, luci e ombre ai quali è spesso impresso un dinamismo di impronta futurista, sia al tatto, attraverso la ruvidezza della carta fatta a mano. È dunque proprio al supporto delle immagini, in questi fogli, che viene affidato il compito di conservare quel rapporto «tra la fisicità irriducibile della materia e la misura costruttiva del disegno», individuato da Stefania Zuliani, il quale altrove si basava fondamentalmente sull'abbinamento fra segno grafico e inserti polimaterici. Come nota Antonello Tolve, in uno dei testi che accompagnano il catalogo, Terlizzi, il cui approccio si basa sull'eclettismo stilistico e grammaticale, ha elaborato un vero e proprio liguaggio, costruito attraverso un processo di decostruzione dell'immagine dal quale sono strati ottenuti elementi naturali trasfigurati, che assumono il ruolo di «unità elementari prive di significato … il cui valore è dato per differenze posizionali e opposizionali all’interno di un contesto sistemico» (secondo la definizione di Filiberto Menna). Ne risulta – sostiene ancora Tolve – la rappresentazione di «una natura artificializzata con lo scopo di creare un reale immaginario», più evocata, servendosi di pochi elementi, che descritta.

La mostra è visitabile dal martedì al sabato, dalle 15,30 alle 19,00 o per appuntamento.