venerdì 5 settembre 2014

La Grotta dello Scalandrone a Giffoni Valle Piana (SA)

Risalita della prima cascata.
Risalita della prima cascata.
Foto di Aristide Fiore.
Lo stretto ingresso della grotta, situato nel territorio di Giffoni Valle Piana (SA), a circa 750 m di quota nell’alta valle del Fiume Picentino, ai piedi del versante occidentale del Monte Accellica, immette in un ampio salone, lungo circa sessanta metri, che costituisce l'ambiente più vasto dell'intera cavità. A causa degli strani effetti sonori prodotti da una cascata e dal tratto di torrente che percorre il suo lato sinistro e sbocca poco più in basso dell'ingresso, è stato chiamato "Sala delle bambine che giocano". Percorrendo, sul lato destro, la sommità di un ammasso roccioso ricoperto di concrezioni, si raggiunge un lago poco profondo, alimentato dalla cascata. Scendendo tra le rocce, si arriva a una piccola spiaggia. Sul lato destro del salone iniziale, un passaggio verso l'alto immette nella Sala della Pietà, un ambiente più piccolo, ricco di concrezioni. Accanto alla sommità della cascata, si trova invece la vera prosecuzione della grotta, che assume la conformazione di una galleria dai contorni resi incerti dalle abbondanti concrezioni. Più in basso, in un condotto non percorribile, che comunica con quello principale solo in alcuni punti, scorre il torrente sotterraneo che alimenta la prima cascata. Alle estremità di due corte diramazioni si trovano la Sala dei Pipistrelli, che per il particolare pregio delle concrezioni si può considerare l'ambiente più bello, e la suggestiva Sala della Colonna. Più avanti, dopo una sala inclinata al cui fondo scorre il torrente sotterraneo, la grotta si sdoppia nei Rami Luisa, che convergono in una strettoia che immette nella Sala del rubinetto aperto. Continuando verso l'alto, nella Sala Adriana si incontra un'altra cascata, alla cui sommità inizia una tortuosa galleria percorsa dall'acqua, lunga circa 80 m, che termina in un ampio salone, nel quale precipita la terza e ultima cascata. Lo sviluppo complessivo della grotta è di 450 m, con un dislivello di 57 m.
L'esplorazione oltre la prima cascata e il rilievo topografico dell'intera cavità sono frutto della collaborazione tra il Gruppo Speleologico CAI Napoli e il Gruppo Speleologico CAI Salerno, tra il 1989 e il 1991.


BIBLIOGRAFIA
Giovanni Galdieri, "Il Gruppo Speleo C.A.I. Salerno al Congresso Nazionale di Speleologia". Il Varco del Paradiso, anno IV - n° 3, ottobre 1990, p. 2.
Gruppo Speleologico C.A.I. Salerno, "Attività del Gruppo". Il Varco del Paradiso, anno V - n° 3, ottobre-dicembre 1991, p. 10.
Luigi Ferranti, "La Grotta dello Scalandrone nel quadro dell'assetto strutturale e dell'evoluzione geomorfologica del massiccio dell'Accellica (Monti Picentini - Appennino Meridionale). In Atti del XVI Congresso Nazionale di Speleologia (ottobre-novembre 1990) - Le Grotte d'Italia vol. XVI, 1992-1993, pp. 41-58.
V. Piscopo, S. Genco, E. Sciumanò, S. Aquino, "Sulla presenza di falde sospese nel rilievo carbonatico di Monte Accellica (Campania)". In Atti del VI Congresso Nazionale dei giovani ricercatori di geologia applicata, 1996, pp. 109-110.
Antonio Santo, Italo Giulivo, "I Monti Picentini". In Natalino Russo, Sossio Del Prete, Italo Giulivo, Antonio Santo, Grotte e Speleologia della Campania, Elio Sellino Editore, Avellino 2005, pp. 391-392.

martedì 13 maggio 2014

Carlo Quaglia doc al Catalogo

Di Aristide Fiore
"Intonaco romano", 1964: olio su faesite.
"Intonaco romano", 1964:
olio su faesite.
[Pubblicato su Le Cronache del salernitano, 1 maggio 2014, p. 11.]
La luce dei cieli dorati e dei tramonti infuocati di Roma, la quiete di paesaggi marini ancora incontaminati sono temi cari al pittore-violinista ternano Carlo Quaglia (1903-1970). Vengono ora riproposti a Salerno, fino a sabato 10 maggio 2014, presso la galleria Il Catalogo di Lelio Schiavone e Antonio Adiletta, in un'interessante retrospettiva, curata in collaborazione con l'Archivio Carlo Quaglia, che comprende circa trenta opere tra olii e disegni.

Nella ricca gamma cromatica, sempre ben accordata, e nella magia dell'atmosfera, calma e misteriosa, resa mediante ampie e morbide pennellate, si riconosce la lezione di quella Scuola romana fondata da Mario Mafai, Antonietta Raphaël, "Scipione" (Gino Bonichi) Fausto Pirandello e altri, la quale contrappose il carattere espressionista che accomunava i suoi esponenti al neoclassicismo in voga nell'Italia del primo dopoguerra e, grazie all'apporto di nuove leve, estese la sua attività fino al secondo, epoca in cui prese le mosse la tardiva ma significativa carriera di Quaglia, dopo i primi esperimenti condotti durante la prigionia in India, alle pendici dell‘Himalaya. Nel farsi artista, dunque, 
"Riviera ligure", 1950: olio su carta.
"Riviera ligure", 1950: olio su carta.
da estimatore d'arte contemporanea quale era, Quaglia imparò a dosare gli intensi rossi scipioneschi, l'amore per le borgate e le periferie di Mafai, le suggestioni chagalliane di Raphaël e così via nella costruzione del proprio linguaggio. Ciò che ne risulta non è la descrizione o la narrazione di quanto l'artista vide, ma l'emozione che quella tal cosa o il ricordo di essa suscitò in lui, trasposta nel colore: un colore spesso disposto per campiture, ciascuna delle quali è naturalmente individuata da una dominante cromatica, ma vibra per la fitta gamma di sfumature, restituendo allo sguardo la vividezza del contesto reale. Questi scenari urbani e rivieraschi, volutamente sgombri di presenze umane, che in genere vengono tutt'al più evocate nella rappresentazione di sculture o altri ornamenti di auguste dimore, sembrano pensati per essere abitati dall'anima: quella dell'artista, in primo luogo, il quale forse trovò più volte un sicuro rifugio, soprattutto nei momenti più drammatici della sua esistenza, prima nelle opere altrui, poi nelle proprie.


mercoledì 16 aprile 2014

Tra la storia e la memoria


Antonella Pagnotta, "La Radura".
Antonella Pagnotta, "La Radura".
(Foto: A. Fiore)


Pasquale Napolitano, "Appunti per uno spazio in cinque tempi".
Pasquale Napolitano,
"Appunti per uno spazio in cinque tempi".
(Foto: A. Fiore)
Lucio Afeltra, "Da sere... orto".
Lucio Afeltra, "Da sere... orto".
(Foto: A. Fiore)
Antonella Gorga, "No" - Senza titolo.
Antonella Gorga, "No" - Senza titolo.
(Foto: A. Fiore)
Dario Di Sessa, "Tramonto" - "Ombrellone" - "Licosa".
Dario Di Sessa,
"Tramonto" - "Ombrellone" - "Licosa".
(Foto: A. Fiore)
Vittorio Pannone, "Tabularasa".
Vittorio Pannone, "Tabularasa".
(Foto: A. Fiore)
Angelo Marra, "Cara mamma".
Angelo Marra,
"Cara mamma".
(Foto: A. Fiore)












Di Aristide Fiore
[Pubblicato su Le Cronache del salernitano, 14 aprile 2014, p. 12.]
A un secolo dallo scoppio della Grande Guerra, otto artisti sono stati invitati dal critico d'arte Marcello Francolini a indagare l'inconscio collettivo per indurre il pubblico a riflettere sui possibili ricorsi di quel fatale 1914 che sconvolse l'Europa e non solo. La collettiva allestita nella Pinacoteca Provinciale di Salerno in collaborazione con la Fornace Falcone invita a reinterpretare il modo di concepire l'esserci, l'essere nel mondo. Per Francolini e gli otto artisti in mostra «non è con le labili barriere d’una presunta scientificità o d’una presunta logicità degli eventi o dei giudizi, che l’uomo potrà difendersi dall’assalto dell’irrazionale, dell’onirico, dell’inconscio; anzi è accettando la condizione di instabilità e indeterminatezza, che potrà farsi strada una concezione del mondo che attinga maggiore forza e maggiore chiarezza proprio dalla constatazione del potere di “un pensiero per immagini”». Sono state dunque formulate otto proposte di “mediazione possibile” tra storia e vita, memoria e percezione, che potrebbero essere riferite a due filoni principali.
Il rischio di perdere il senso del mondo o la percezione di sé – e l'invito implicito a evitare tale perdita – è il tema che accomuna le opere proposte da Antonella Pagnotta, Pasquale Napolitano e Lucio Afeltra. “La radura” di Pagnotta è in realtà un non-luogo, individuato mediante la dimensione contraddittoria di una “disfunzione prospettica”, che induce l'osservatore a concentrarsi sull'unica certezza: il corpo, rappresentato dall'enigmatica figura, incastonata tra quinte illusorie al centro del dipinto. Quanto sia facile intraprendere il percorso contrario, lasciarsi illudere dal fascino della tecnologia a discapito della percezione della dimensione umana, lo dimostra la fantasmagoria di luci della videoinstallazione di Napolitano (“Appunti per uno spazio in cinque tempi”), mentre il grande pannello polimaterico di Afeltra (“Da sere... orto”) rappresenta un disperato tentativo di aggrapparsi al reale, a una ordinarietà agognata ma sfuggente, la cui persistenza, nonostante tutto, si manifesta con decisione nelle immagini di Antonella Gorga e in quelle, immediate ma non banali, di Dario di Sessa.
Altro tema fondamentale è la memoria. Se è vero che la storia la (ri-)scrivono i vincitori, anche il vissuto di coloro che sono stati coinvolti a vario titolo dagli eventi fonda la sua integrità su equilibri precari. È questo il senso di “Tabularasa” di Vittorio Pannone. Il carattere monumentale del segno viene contraddetto dallo stesso materiale con il quale è realizzato: nel supporto di cartone si intravede la vertigine dell'effimero, dell'appoggio malfermo. Finché il ricordo dura, occorre adoperarsi tuttavia affinché superi le barriere innalzate per superare il lutto e diventi utilizzabile, a beneficio dei sopravvissuti e dei posteri; magari facendo ricorso a qualche espediente, che ne attenui il potenziale ritraumatizzante. Le installazioni di Angelo Marra, quasi dei totem atti a rappresentare due aspetti della tragicità della guerra (“Cara mamma” e “La miseria più nera”), sembrano guardare al dolore con distacco; a esse fanno da controcanto i tre dipinti su cartone dello stesso autore (“Poi la guerra è finita”, “Un angelo al buio”, “Senza titolo”), mediante i quali egli tenta invece di affrontare l'indicibile, lasciando fluire sensazioni e ricordi attraverso segni apparentemente poco organizzati, quasi infantili: è una sfida alle false certezze, che preludono alle peggiori avventure. Nelle immagini fotografiche di Pio Peruzzini, invece, la memoria storica di un tratto paesaggistico simbolico – le doline del Carso – veicolata attraverso la morfologia organica – gli occhi di pesce – si trasforma in monito.
La mostra sarà visitabile fino al 30 aprile 2014 dal martedì alla domenica, dalle 9:00 alle 19:45.

Pio Peruzzini, "Engraulis Encrasicolus".
Pio Peruzzini, "Engraulis Encrasicolus".
(Foto: A. Fiore)

venerdì 11 aprile 2014

L'arte cucita di Virginia Franceschi

Di Aristide Fiore
Virginia Franceschi tra le sue opere.
Virginia Franceschi tra le sue opere.
[Pubblicato su Le Cronache del salernitano, 6 aprile 2014, p. 9.]
La definizione di un nuovo rapporto tra arte, spazio e ambiente è lo scopo della ricerca di Virginia Franceschi, i cui traguardi più recenti sono esemplificati nella mostra Punti di Sospensione, visitabile a partire da venerdì 4 aprile 2014 a Salerno, presso Linee Contemporanee, in collaborazione con la Fornace Falcone.
Il tratto comune dell'intera produzione artistica di Franceschi è l'unione: di materiali, culture, poetiche e, in definitiva, anche di persone. Grande esperta di cucito, concepisce le sue composizioni mediante l'accostamento di tasselli colorati in tessuto di vario aspetto e consistenza (cotone, lino, seta ecc.), spesso sfilati o arricchiti da ricami e rifiniti con l’aggiunta di elementi diversi: cordoncini, fili, nastri, frammenti di ceramica, bottoni, paillettes; materiali raccolti e riutilizzati efficacemente. Così come i tessuti, scelti accuratamente dall'artista tra le antiche stoffe di famiglia e nei mercatini dell’usato o durante i suoi viaggi in Francia, in Turchia, in Marocco, in Uzbekistan e, ultimamente, in Etiopia, dove, ospite di una missione cattolica, ha insegnato alle donne i rituali poetici del cucito, attività svolta da sempre esclusivamente dagli uomini e ritenuta una semplice abitudine, connotata da una certa ripetitività. Il risultato di tutte queste esperienze combina la poetica dadaista dei “ready-made”, ovvero la riconversione di oggetti di uso quotidiano in opera d’arte, e degli “objets trouves” con la scultura cinetica inaugurata dai “mobiles”, le sculture mobili di Alexander Calder. Le sospensioni sensibili di Virginia Franceschi, realizzate con rami contorti recuperati sulle spiagge del Cilento, insieme a bottiglie di plastica, giocattoli rotti, reti metalliche e altri materiali d'ogni genere trasportati dal mare, coniugano la critica del ciclo economico basato sul consumismo all'invito all'adozione di stili di vita sostenibili, espresso dalla rivalutazione di oggetti scartati e rafforzato dal riferimento materiale e estetico a culture e civiltà “altre”, offerte implicitamente come esempio, che sono rappresentate dai tessuti di provenienza esotica. Si inserisce pienamente in questo filone la nuova serie di cuscini, realizzati con fantasiose stoffe di provenienza orientale e rifiniti con decorazioni e interventi artistici, che in questo allestimento, curato da Maria Giovanna Sessa, sono sospesi in colorati grappoli oscillanti sui sofisticati divani dello show room. Alcuni di essi, impreziositi da accurati ricami, sono opera di Carla Oliva, artista dell’ago e membro del laboratorio di cucito creativo “Agoscrittura”, presso il quale Virginia Franceschi riunisce donne accomunate dalla passione per questa disciplina, la cui pratica riesce a sortire anche effetti benefici e perfino terapeutici.

La mostra sarà aperta al pubblico fino al 26 aprile 2014, tutti i giorni dalle 9.00 alle 20.00.

giovedì 10 aprile 2014

Apologia della superficie

Di Aristide Fiore
Alcune opere esposte.
[Pubblicato su Le cronache del salernitano, 3 aprile 2014, p. 17.]
«Essere apparentemente lieti mentre l’animo brucia ferocemente e affidare a forme profughe il verbo futuro di ogni racconto possibile». Così FrancescoTadini, curatore, insieme a Melina Scalise e Antonello Tolve, di “Apologia della superficie”, la personale di Ernesto Terlizzi allestita a Milano, presso lo Spazio Tadini, definisce il carattere di questa mostra. Aperta fino al 18 aprile 2014, è composta da trenta opere, tutte realizzate su carta thailandese kozo martellata e risalenti al 2013, tranne "In volo", che è del 2014: in quest'ultimo lavoro, composto da sei fogli, come afferma lo stesso autore, «aleggia il vento della Speranza per centinaia di profughi tesi a costruire un Sogno. Un Sogno che spesso s'infrange, sommerso nel profondo silenzio del mare». Va notato, in proposito, che il riferimento all'elemento liquido, se non proprio al mare, è frequente in questa selezione. Terlizzi ha sempre dimostrato una grande sensibilità verso le tematiche relative alle emergenze umanitarie, che si riflette spesso sia nelle sue opere sia nella sua attività espositiva: già invitato presso la galleria milanese nel 2011, ha aderito, due anni dopo, al progetto “Save My Dream”, una collettiva che Spazio Tadini ha dedicato agli immigrati periti nel tentativo di raggiungere le coste italiane. Per espressa volontà di Francesco Tadini, figlio del maestro Emilio, scomparso da dodici anni, nel luogo che fu il suo studio, ora trasformato in centro d'arte e cultura, si rinnova idealmente un legame improntato sulla stima reciproca.
Alcune opere esposte.
Secondo Melina Scalise, l'arte di Terlizzi oltrepassa l'ambito dell'astrattismo, nel quale, a prima vista, si sarebbe tentati di collocarla. Le immagini rappresentate su queste carte superano la bidimensionalità, proponendosi come veri e propri oggetti, che si offrono sia alla vista, mediante l'accurata scansione di piani, luci e ombre ai quali è spesso impresso un dinamismo di impronta futurista, sia al tatto, attraverso la ruvidezza della carta fatta a mano. È dunque proprio al supporto delle immagini, in questi fogli, che viene affidato il compito di conservare quel rapporto «tra la fisicità irriducibile della materia e la misura costruttiva del disegno», individuato da Stefania Zuliani, il quale altrove si basava fondamentalmente sull'abbinamento fra segno grafico e inserti polimaterici. Come nota Antonello Tolve, in uno dei testi che accompagnano il catalogo, Terlizzi, il cui approccio si basa sull'eclettismo stilistico e grammaticale, ha elaborato un vero e proprio liguaggio, costruito attraverso un processo di decostruzione dell'immagine dal quale sono strati ottenuti elementi naturali trasfigurati, che assumono il ruolo di «unità elementari prive di significato … il cui valore è dato per differenze posizionali e opposizionali all’interno di un contesto sistemico» (secondo la definizione di Filiberto Menna). Ne risulta – sostiene ancora Tolve – la rappresentazione di «una natura artificializzata con lo scopo di creare un reale immaginario», più evocata, servendosi di pochi elementi, che descritta.

La mostra è visitabile dal martedì al sabato, dalle 15,30 alle 19,00 o per appuntamento.

giovedì 20 marzo 2014

Mario Carotenuto: la sorpresa dell'inedito

Di Aristide Fiore
Mario Carotenuto e Lelio Schiavone.
Mario Carotenuto e Lelio Schiavone
(foto: A. Fiore).
[Pubblicato su Le Cronache del salernitano, 20 marzo 2014, p.13]
Ci si sorprende sempre, nello scoprire aspetti inediti dell'opera di un artista, la cui vasta produzione, ricca di successi espositivi, potrebbe indurre anche gli estimatori meglio informati a ritenere di conoscerne ogni risvolto. Gli esiti della ricerca che giungono alla notorietà vengono tuttavia individuati operando scelte ben ponderate, dettate spesso da giudizi di merito, focalizzati sul tema che si intende privilegiare, piuttosto che sul piano della qualità. Accade quindi inevitabilmente che alcune varianti, perfino ricorrenti, di un percorso creativo vengano temporaneamente tralasciate, come nel caso dei “Fiori” di Mario Carotenuto, un soggetto assai caro al pittore, al quale è stata finalmente dedicata la personale allestita a Salerno, presso Il Catalogo di Lelio Schiavone e Antonio Adiletta.

Alcuni quadri esposti.
L'esposizione, che abbraccia l'intero arco della carriera, permette di ripercorrerne tutte le tappe salienti, rese facilmente individuabili proprio attraverso la declinazione di uno stesso tema: quei fiori, in genere selvatici, i quali, alternandosi talora nel ruolo di protagonisti assoluti, talaltra in quello di comprimari o di semplici comparse, popolano il fervido immaginario dell'artista. Su quei petali dai colori ora vivaci ora delicati, si riconoscono le tracce dell'ampia parabola di Carotenuto, che gli ha permesso di attraversare diverse epoche e confrontarsi col conseguente avvicendamento di gusti, sentimenti, mode. Conservando la schiettezza degli esordi e portando con sé i semi di una tradizione che, come sottolineato in un testo critico di Marco Amendolara, comprende indistintamente le avanguardie del Novecento e la grande pittura dei secoli precedenti, egli ha sempre saputo coniugare rigore e poesia, recuperando e rivitalizzando gli aspetti ritenuti più significativi, come si vede in questa mostra, tramite la quale si può apprezzare una vasta gamma di tecniche, dalla secca pennellata alla Van Gogh al grafismo sottile e preciso, dal rigore descrittivo alla rappresentazione onirica di stampo surrealista. Il tutto reso accortamente funzionale ai temi legati indissolubilmente alla poetica carotenutiana, come i paesaggi, le nature morte, gli arredi e i paramenti sacri e le immancabili farfalle: i celebri “fiori volanti”, che ne costituiscono forse il tratto più riconoscibile. In definitiva, non resta che tributare la giusta lode a un'iniziativa che, perpetrando una fruttuosa collaborazione iniziata nel 1969, ha consentito ai più di scoprire un altro tassello fondamentale per la ricostruzione di una vita dedicata all'arte, con la speranza che ve ne siano ancora molti altri. Il tutto reso accortamente funzionale ai
Alcuni quadri esposti.
temi legati indissolubilmente alla poetica carotenutiana, come i paesaggi, le nature morte, gli arredi e i paramenti sacri e le immancabili farfalle: i celebri “fiori volanti”, che ne costituiscono forse il tratto più riconoscibile. In definitiva, non resta che tributare la giusta lode a un'iniziativa che, perpetrando una fruttuosa collaborazione iniziata nel 1969, ha consentito ai più di scoprire un altro tassello fondamentale per la ricostruzione di una vita dedicata all'arte, con la speranza che ve ne siano ancora molti altri.

mercoledì 5 febbraio 2014

Omaggio al massiccio degli Alburni

Di Aristide Fiore
[Pubblicato su Le Cronache del salernitano, 4 febbraio 2014, p. 16.]
I Monti Alburni.
Questa sera a Calvanico, presso la Residenza rurale “L’Incartata”, alle ore 16:00, si terrà un incontro dedicato ai Monti Alburni, che comprenderà una lezione dello storico Antonio Capano e la presentazione del “Calendario di Postiglione 2014”. Seguirà una cena con pietanze tipiche degli Alburni.
I Monti Alburni, il cui nome si riferisce al colore chiaro delle rocce, costituiscono un importante massiccio calcareo situato fra le valli del Sele, del Tanagro e del Calore, delimitato a est dal Vallo di Diano. Compreso nel Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano, questo gruppo montuoso, le cui vette principali superano i 1700 metri, è conosciuto come “le Dolomiti del sud” per l'imponenza delle creste rocciose che coronano un vasto altopiano interessato da intensi fenomeni carsici. Vi si trovano infatti oltre 200 grotte a prevalente sviluppo verticale, fra le quali si annoverano le Grotte di Castelcivita e le Grotte di Pertosa, annoverate tra le principali attrazioni turistiche della zona, insieme all'Oasi di protezione WWF di Serre-Persano.
Frontespizio del calendario "Postiglione 2014" (particolare).
Il nuovo calendario edito dall’“Arci Postiglione”, il quindicesimo della serie, contiene immagini fotografiche del recente passato di questo comune di origine medievale, situato sul versante occidentale degli Alburni. Le immagini selezionate riguardano, fra l'altro, l’Hotel Norge, costruito nel 1926 da Americo Montera, le rappresentative calcistiche Postiglionese e Volcei (Buccino), immortalate in occasione di un incontro di calcio che si svolse a Buccino nel luglio del 1962, la fontana “Acqua del cerro”, costruita nel 1855, e alcune festività religiose, tra cui la Festa della Madonna del Carmine e la Festa di S. Elia. Alla presentazione dell'opera interverrà il prof. Rino Mele, dell’Università di Salerno, autore del testo introduttivo intitolato “La montagna nuda”, del quale proponiamo un estratto.
«Questo calendario di Postiglione 2014, come gli altri che l’hanno preceduto, ha il volto girato a ricordare schegge di vita su quegli Alburni, ferite rimarginate e risa. Ancora una volta, attraverso antiche fotografie riscrive le pietre del paese, le strade incurvate nei canali, le pareti che sembrano sipari di un teatro consumato, la foto di gruppo degli scolari, il gioco delle mietitrici che fingono un’allegria come dovesse durare oltre la posa. E la gioia collettiva per la festa di Sant’Elia con l’immancabile suonatore di fisarmonica e, al centro, il postino del paese che – quasi mimasse il sogno di un volo dopo la caduta – sembra chiedere di svelare lo scuro enigma dell’esistenza sciogliendolo da una salvifica risata.
La fotografia che più seduce è del 1926 (da poco uccisi Matteotti e Giovanni Amendola, l’Italia si avviava a una completa fascistizzazione, in superficie, come si fosse addormentata nello specchio), l’immagine rappresenta la salita al castello, una strada pietrosa e impervia, a gradoni sghembi, scoscesi, ingombra di spuntoni rocciosi.


Residenza rurale "L'Incartata".
Residenza rurale "L'Incartata", Calvanico (SA)
Il castello non si vede, ma lo si sente incombere sulla quotidiana pena di quelle pietre cui fanno da testimoni cinque personaggi, due (forse coniugi) fermi come alari di un focolare ai lati opposti della via, quasi a significare una reciproca forte appartenenza mentre, secondo una geometrica figurazione, a metà della salita, di profilo, stringono quella visione un giovane con una camicia chiara e una donna: sulla scala esterna della prima casa sulla destra, una vecchia con curiosa attenzione guarda il fotografo non sapendo che sarebbe arrivato fino a noi quell’inavvertibile attimo della sua nascosta vita.

Partecipano, tutti e cinque, dell’anima più antica del paese, dove non c’è simulazione urbana di spazi in cui fermarsi, piazze, braide, ma solo ciò che resta del rapporto diretto, feudale, tra la montagna e le case. Le pietre del muratore hanno chiesto ospitalità alla roccia, da essa sono state accolte, con essa ancora si confondono vanamente opponendosi, come l’ancora che la radice del mare trattiene dopo un naufragio».

martedì 4 febbraio 2014

Gli approdi ceramici di Clara Garesio

Di Aristide Fiore
Immagini della mostra.
[Pubblicato su Le Cronache del salernitano, 1 febbraio 2014, p. 16.]
L'armonia fra idea e emozione costituisce il tratto comune delle opere ceramiche di Clara Garesio esposte a Salerno, presso lo showroom Linee Contemporanee, nella personale intitolata "Approdi desiderati", allestita in collaborazione con la Fornace Falcone. Il titolo sembra riassumere il connotato principale della produzione dell'artista torinese trapiantata a Napoli, che consiste in una corrispondenza fra idee e opere, che deriva dalla perfetta padronanza di tecniche e materiali, ma allude certamente anche alla felice ripresa, al volgere del secolo, di un percorso artistico iniziato negli anni Cinquanta, quando vinse il primo premio al XIV Concorso Nazionale della Ceramica di Faenza, che si interruppe all'inizio del decennio successivo, in seguito al matrimonio con lo scultore napoletano Giuseppe Pirozzi, con il quale l'artista ha spesso collaborato. Gli anni del “silenzio”, nei quali il “pianeta Garesio” sembrò attraversare un cono d'ombra, furono in realtà un periodo fecondo. Dedicatasi alla famiglia e all'insegnamento, non trascurò infatti di coltivare quotidianamente il proprio talento, impegnandosi parallelamente in una ricerca continua, tuttora in corso, resa possibile dalla produzione di numerosissimi studi su carta e da un piccolo forno per la ceramica collocato in cucina, come nelle tradizionali case-laboratorio degli artigiani vietresi. Non a caso Enzo Biffi Gentili, direttore del Museo Internazionale delle Arti Applicate di Torino, ha riconosciuto in lei la figura dell'“artiere”, ovvero dell'artigiano-artista. Nel 2006, dopo aver risposto entusiasticamente all'impulso irrefrenabile di dare libero corso alla sua vulcanica creatività, l'artista è stata insignita del Premio alla Carriera del Museo Artistico Industriale “Manuel Cargaleiro” di Vietri sul Mare.
Come sottolinea Erminia Pellecchia nella presentazione della mostra, «dare una definizione al “fare” della Garesio è per fortuna impossibile, giacché si muove al di là di stereotipi o mode. Si abbandona a un impulso, spinta dal bisogno di comunicare il proprio sentire, ora e subito». Formatasi nel corso di un Novecento ormai maturo, resa partecipe delle scoperte dei principali movimenti, a cominciare dalle avanguardie, Garesio sviluppò inizialmente uno stile di impronta modernista, nel quale si individuano molti riferimenti al Mirò e al Picasso ceramisti, dei quali riprese anche le suggestioni etniche, arcaiche o zoomorfe del vasellame, elaborando tuttavia anche motivi nati da ricerche autonome, spesso legati alla natura. È il respiro di tutto un secolo, che si protende dunque su quello successivo, attraverso le realizzazioni più recenti, frutto di una tecnica complessa, che abbina la singolarità delle forme alla resa dei pigmenti. L'accostamento degli smalti, distribuiti in una successione di fasi, conferisce a vasi e terraglie ricavati al tornio o a mano, con la tecnica del colombino, un rilievo che trasporta la pittura vascolare oltre il piano della decorazione, facendone un tutt'uno con la materia scultorea: è proprio sotto questo aspetto, che si individua l'apporto personale dell'artista, il quale peraltro si riverbera anche in ambiti diversi. Lo stesso tipo di approccio le ha permesso infatti di esprimersi efficacemente anche in altri settori, attraverso la realizzazione di monili, tessuti e complementi d'arredo. Affermatasi come disegnatrice, pittrice, decoratrice e scultrice, che predilige senza dubbio la ceramica, Clara Garesio può quindi definirsi a buon titolo un'artista eclettica, sebbene lo sconfinamento verso l'uso di materiali insoliti, quali stoffa, gesso, tela, legno, metallo, vetro eccetera, fino all'utilizzo di materiali di riciclo, non scaturisca mai da scelte casuali o dalla semplice ricerca di novità fine a se stessa, ma sia dettato piuttosto da un'attenta meditazione, volta a individuare il supporto e la tecnica più adatti a ottenere il risultato atteso.

Immagini della mostra.


Quest'ultima personale, che costituisce una valida sintesi dei risultati più recenti, comprende vasi dalle forme slanciate, in molti casi plasmati secondo geometrie complesse, piatti, sfere traslucide, pannelli e piastrelle i cui rilievi assumono spesso configurazioni dinamiche, tegole variopinte dai colori accesi e un affascinante esemplare appartenente alla serie delle “Scatole delle meraviglie”: dei contenitori di ceramica, plasmati come vasi, pentole, scatole o astucci, dai quali traboccano, come da una sorta di “cornucopie postmoderne”, le riproduzioni in porcellana di oggetti, giocattoli, utensili tradizionali, associati liberamente secondo criteri puramente estetici. La mostra sarà visitabile fino al 15 febbraio, 
tutti i giorni tranne lunedì mattina e domenica, dalle 9,00 alle 13,30 e dalle 16,00 alle 20,30

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giovedì 2 gennaio 2014

A Salerno grande successo per il XXIII Corso di introduzione alla speleologia

Di Aristide Fiore
Discesa di un pozzo nella Grotta dei Vitelli, sui Monti Alburni.
Discesa di un pozzo nella Grotta
dei Vitelli, sui Monti Alburni.
(Foto: A. Fiore)
[Pubblicato su Le Cronache del salernitano, 29 dicembre 2013, p. 8.]
Con la consegna degli attestati di partecipazione presso la sede del Club Alpino Italiano – Sezione di Salerno si è concluso il XXIII Corso di introduzione alla speleologia, diretto dall'Istruttore di Speleologia (IS) Mario Petrosino, in collaborazione con la Scuola Nazionale di Speleologia - CAI.
Le lezioni pratiche, che si sono svolte in varie località dei Monti Picentini e dei Monti Alburni, sono state dedicate all'apprendimento delle tecniche di progressione in grotta, con particolare riferimento alla progressione su sola corda, in quanto le cavità naturali comprendono spesso ambienti che si sviluppano in verticale i quali generalmente non possono essere percorsi in arrampicata. Le lezioni teoriche, svoltesi come di consueto nella sede sezionale, hanno riguardato tutti gli aspetti fondamentali della speleologia, una disciplina che, per propria natura, costituisce un crocevia di saperi, tutti incentrati sulla conoscenza dei fenomeni carsici e sulle loro molteplici interazioni con l'ambiente di superficie e l'attività antropica. Nell'illustrarli, si è fatto ampio ricorso a esempi tratti dall'ambito regionale o locale, sia per conferire maggiore familiarità agli argomenti trattati sia per favorire la conoscenza del nostro territorio. Ai partecipanti è stata anche offerta l'opportunità di apprendere alcune nozioni di base sul primo intervento in caso di incidente e sulle modalità di attivazione del Corpo Nazionale di Soccorso Alpino e Speleologico.
Gli organizzatori sono certi di aver accresciuto nei partecipanti, quali che siano le loro intenzioni relativamente all'opportunità di prolungare loro esperienza in questo campo, la consapevolezza della bellezza e della fragilità dell'ambiente carsico. Agli eventuali nuovi esploratori augurano invece di poter contribuire alle nuove scoperte, che certamente attendono chi si accinge a scrutare il mondo sotterraneo, del quale ancora oggi è nota solo una minima parte; o almeno di potersi unire a coloro che ne diffondono la conoscenza, se è vero che uno speleologo può dirsi tale solo in quanto condivide ciò che ha visto.
L'esito del corso è risultato positivo per sei allievi, su un totale di otto iscritti: Giuseppe Carrus, Raffaele Di Domenico, Iolanda Grimaldi, Annagrazia Mancini, Carmine Nobile e Claudia Zambrano. Come sempre i neo-speleologi sono stati festeggiati da tutti i soci della Sezione.