[Pubblicato
su Roma Cronaca di Salerno e provincia,
25 aprile 2013, p. 27]
L'abbandono,
inteso come cedimento consapevole al flusso del sogno a occhi aperti
oppure come condizione di oggetti e luoghi trascurati o perfino
dimenticati è
il connotato comune delle due mostre fotografiche inaugurate venerdì
a Palazzo
Genovese (Largo Campo – Salerno):
“Rêverie”
di Eugenia
Savino, a cura di
Lucrezia Savino, e
“Ruggine”
di Luca
Scola, a cura di Iole Faggiano.
Il
titolo della serie esposta da Eugenia Savino
(Parma 1986) si rifà alla poetica
della
rêverie
(fantasticheria) del filosofo francese Gaston
Bachelard,
intesa come esercizio concreto dell'immaginazione. «La rêverie
– ha scritto Bachelard – è lo stato in cui l’io, dimentico in
un momento di grazia della propria identità contingente, lascia
errare il proprio spirito, si abbandona a ricordi e immagini con una
libertà simile a quella del sogno, pur restando tuttavia in stato di
veglia». Le diciotto opere esposte da Savino sembrano voler
infrangere la stasi propria di questo mezzo espressivo, che di per sé
tenderebbe a fissare un particolare attimo, per evocare l'idea di un
continuo, illimitato processo immaginifico. Ritraggono figure
femminili, spesso diafane, collocate in ambientazioni surreali, per
lo più acquatiche. Scrive ancora Bachelard: «è
vicino all'acqua che ho meglio compreso che il fantasticare è un
universo in espansione, un soffio di odori che fuoriesce dalle cose
per mezzo di una persona che sogna.» Sono immagini oniriche, quelle
proposte dall'artista parmense, che tuttavia rivendicano lo status di
dimensione ideale della nostra esistenza, in quanto, secondo lo
studioso dell'immaginario, «la
nostra appartenenza al mondo delle immagini è più forte, più
costitutiva del nostro essere che non l'appartenenza al mondo delle
idee» e solo concedendoci
a quella dimensione
possiamo sperimentare una forma di libertà inalienabile:
«Di
quale altra libertà psicologica godiamo oltre a quella di
fantasticare? Psicologicamente parlando, è proprio nelle rêveries
che siamo degli esseri liberi».
Luca
Scola (Salerno 1976) espone ventinove
opere della serie “Ruggine”:
cose e luoghi abbandonati, dicevamo, che tuttavia conservano ancora
qualche traccia delle presenze che li hanno toccati o attraversati,
oppure vengono riportati in vita dall'artista, che li pone al centro
dell'attenzione rivelandone aspetti sconosciuti, magari individuabili
proprio nei segni che ne denunciano la decadenza al di là
dell'imprescindibile richiamo alla transitorietà; ma è anche in
grado di individuare nuovi spunti estetici, se non addirittura delle
narrazioni vere e proprie, come nel caso di “Se non ci metterà
troppo l'aspetterò tutta la vita”, che partendo dall'incontro
casuale di materiali eterogenei in un luogo desolato, acquista un
carattere allo stesso tempo ironico e poetico grazie al suggello del
titolo, preso in prestito da Oscar Wilde. Altro felice esito della
ricerca di Scola è la scoperta di parvenze di vita o di volontà in
soggetti che in realtà non ne conservano traccia, come gli esempi
spontanei di astrazione geometrica in “Contemplazione” e
“Sovrapposizione cromatica” e i colori accesi che animano
inaspettatamente le mura di un borgo deserto (“L'atelier”);
oppure della vita stessa che si riappropria a poco a poco di luoghi
deprivati di qualunque traccia di attività, come la serra invasa dai
cespugli in “Anarchia”. Inevitabile, dato il tema, uno sbocco
metafisico, in immagini di interni abitati solo da ombre e nelle
visioni notturne del vecchio stadio di Colonia; o addirittura
mistico, nel bianco intenso di una porta o nel candore della neve che
trasfigura il paesaggio di Cesena e in vecchie immagini sacre ormai
logore, che sembrano acquistare ulteriore carisma proprio dal
disfacimento, dal graduale confondersi con le pareti scrostate (“San
Francesco”). Entrambe le splendide
mostre si
sono concluse ieri con un grande successo di critica e di pubblico.
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