Strofinare forsennatamente patate,
spostarle da un recipiente all'altro, inchiodati a un rituale
insensato, mentre si rincorre faticosamente il fantasma della propria
identità tra brandelli di ricordi. È lo scenario che si presenta in
uno dei migliori appuntamenti della rassegna Out of Bounds
presso l'auditorium Sant'Apollonia, sostenuta dall'Officina teatrale
LAAV e dalla Bottega San Lazzaro: Il posto delle patate di
Georges Pèrec, in cui Rosi Giordano dirige la Compagnia Macroritmi
(Maria Teresa Di Clemente, Maria Enrica Prignani, Monica
Maroncelli, Marco Giustini e Adriano Rosani).
Le cinque figure in scena si trovano al
guado tra l'assurdo indecifrabile dell'esistenza, che ingabbia e
impone sentieri prefissati, fino a spingerli al parossismo di
movimenti convulsi, meccanici, ripetitivi, e una concretezza libera
di essere null'altro che se stessa, di cui il noto tubero è
espressione. “Le patate sono cose concrete: si possono toccare”
ripetono, invidiando ciò che è definibile e chiaro e sembra
precluso alla loro condizione, alla quale cercano di sfuggire creando
a turno narrazioni per ritrovare se stessi. Come le patate, sono
diversi l'uno dall'altro, ma non abbastanza da evitare di confonderli
(il pensiero corre alla borghesia). Ciò che dovrebbe liberarli li
imprigiona ancora di più (“Siamo incastrati nei ricordi.”) e li
isola, perché nessuno si riconosce fino in fondo in ogni racconto,
che viene perciò interrotto e il narratore attaccato e messo a
tacere. L'unico protagonismo che non viene messo in discussione è
quello della patata, che diventa arma, oggetto di gioco, di
dissertazione didascalica, di comizio politico e di performance
canora, per sottolineare la distanza tra l'incerto (caratteri che non
diventano personaggi) e il certo, che può essere però sinonimo di
morte, come mostra il materiale affastellato sullo sfondo: cappelli,
ombrelli, abiti, bricchi, scarpe e altri oggetti d'uso quotidiano,
che creano la grottesca scenografia dell'assodato.
Dinanzi all'impossibilità di avanzare
in una qualsiasi direzione, sottolineata da dialoghi surreali (“Ma
siamo dentro o fuori?” “Fa lo stesso.” “Siamo dall'altra
parte.”) non giova neppure cercare di capire chi siano (e se
ci siano) gli altri, qualcuno che osserva, che sa qualcosa di più.
Nel tentativo di superare l'impasse,
ricorrono a qualcosa che li ponga al riparo dall'incoerenza, e si
ritrovano a recitare l'Amleto,
vissuto fino in fondo perché, in quanto storia inventata, deve
necessariamente arrivare a una conclusione. Quest'ultima soluzione
non è però una via d'uscita: l'unico esito è il ritorno alla
situazione iniziale.
Nessun commento:
Posta un commento